di Filippo Grendene
In occasione dell’80° anniversario della liberazione, Sara Clementi e Giulia Cupani hanno realizzato e autoprodotto un podcast sull’attività della banda Carità a Padova, dunque su Palazzo Giusti. Il gruppo fascista toscano, guidato dal maggiore Mario Carità, nel tardo 1944 dopo la conquista americana di Firenze si sposta a Padova. L’obbiettivo, disarticolare il Comitato di Liberazione cittadino, viene raggiunto in un paio di mesi, attraverso una rete di spie, una serie di retate, le torture inflitte ai prigionieri. Si tratta di una pagina triste della guerra di liberazione, che coinvolse molti dei membri più in vista della Resistenza cittadina. Ne resta traccia in una lapide e in alcune poesie di Meneghetti, fra cui Partigiana nuda.
Abbiamo intervistato Giulia e Sara per capire le ragioni, artistiche e politiche, del loro lavoro e di alcune loro scelte.
Filippo. Una domanda semplice ma necessaria: perché avete scelto di fare questo podcast?
Giulia. Il primo seme di questo lavoro, in realtà, risale a tanti anni fa. Quando ho cominciato a fare l’università, quindi nel lontano 2006, mi capitava di frequentare la mensa San Francesco, che sta proprio di fronte a Palazzo Giusti, e quindi di leggere la targa con il testo della Canzone della nave scritto da Meneghetti. Avevo letto la targa, un po’ avevo focalizzato di cosa si parlava, ma non avevo capito molto di più, e mi era rimasto il dubbio su cosa fosse successo davvero in quel palazzo. Poi, questa storia saltava fuori anche altrove, ad esempio l’autore su cui ho fatto la tesi, Luigi Meneghello, nei Piccoli maestri parla del suo amico Marietto che a un certo punto viene portato a Palazzo Giusti. Racconta l’episodio del suo arresto, dice che è successo proprio in via San Francesco davanti alla sede della Banda Carità, ma poi non specifica più di così. Quindi, ecco, mi era rimasto questo dubbio, ma non avevo mai approfondito seriamente dal punto di vista storico. Questo era il momento di farlo. Così abbiamo cominciato la ricerca su Palazzo Giusti e la Banda Carità, abbiamo scoperto che esisteva un saggio, scritto da Riccardo Caporale – che poi ha svolto anche la supervisione storica del nostro lavoro – e da lì siamo partite. Abbiamo poi scoperto che le cose da raccontare erano molte più di quelle che noi pensavamo originariamente.
Sara. Purtroppo, per ovvi motivi anagrafici, non abbiamo potuto intervistare nessuna delle persone direttamente coinvolte. Abbiamo fatto una serie di ricerche sperando in archivi audio, ma anche qui ci siamo scontrate con la diversa abitudine alla conservazione di simili materiali. Ancora trent’anni fa, era piuttosto rara la registrazione di testimonianze. In realtà siamo rimaste stupite dalla scarsità di fonti audio su questo argomento: certo, partigiani vivi non ce ne sono più, però pensavamo che negli anni ‘70, ‘80, ci fosse stato qualcuno che gli avesse messo davanti un microfono per registrare. Invece abbiamo trovato molto poco. Siamo così arrivati ad alcuni personaggi, fra cui i fratelli De Vivo, il cui padre, Francesco, imprigionato, ebbe un importante ruolo nel tramandare la memoria di quanto accaduto. Una memoria di secondo livello.
Filippo. Il podcast è uno strumento interessante che, nella sua apparente semplicità e immediatezza, riesce spesso a trasferire alcuni ragionamenti teoricamente alti. Un ruolo centrale, nel vostro lavoro, per forza di cose ha la tortura. Come avete scelto di affrontare l’argomento?
Giulia. Abbiamo cercato di affrontarlo uscendo dalla dimensione della ricerca storica e provando a fare un affondo sociologico. In questo ci ha aiutate la professoressa Iside Gjergji, sociologa che si è occupata del valore simbolico della tortura nelle diverse società. Ci è stata fornita così una chiave di lettura che, al di là dei ragionamenti su Palazzo Giusti, cambia un po’ il punto di vista, fornisce una lettura ulteriore rispetto cose che solitamente si dicono sul tema. Lei ha una teoria: qualunque società gerarchica, per necessità interne ai suoi strumenti di controllo e repressione, produrrà sempre la tortura, anche se approva leggi che formalmente la vietano. L’unico modo per eliminare la tortura è eliminare la società gerarchica; che non significa soltanto il totalitarismo novecentesco, naturalmente. La tortura c’è anche oggi, anche qui.
Filippo. Al di là di questo affondo, e di altri presenti, come avete declinato la forma del podcast?
Giulia. A nostro parere, con un ragionamento che può sembrare rovesciato, il podcast deve rappresentare delle immagini che devono formarsi nella mente di chi ascolta. Non si può concepirlo come un testo scritto che poi uno legge, bisogna permettere all’ascoltatore di immaginare una scena.
È necessaria dunque, per una visualizzazione complessiva, una serie di dettagli visuali, anche non presenti nelle fonti perché minimi, di contorno, ma che consentano all’ascoltatore di immaginare una scena. Un esempio: nella scena della retata alla clinica Palmieri, l’immagine di Ida D’Este che si avvicina all’edificio con il bambino, e solo a quel punto si accorge che la clinica è circondata, l’abbiamo costruita noi. Sappiamo che lei quel giorno era lì, e che il bambino era con lei, ma la dimensione narrativa abbiamo dovuto crearla noi. Sono tutte cose vere, ma il contorno l’abbiamo aggiunto per aiutare a immaginare.
Filippo. Qual è l’immagine che avete voluto trasmettere della Resistenza?
Sara. A noi interessava rendere un po’ la complessità che oggettivamente, storicamente, ha costituito l’anima del movimento resistenziale. Non c’erano solo i giovani in montagna col fucile, c’erano anche persone adulte, come Meneghetti, che certo non era un ragazzino; c’erano le donne con ruoli anche dirigenziali; c’erano anche tante figure che magari avevano un ruolo in qualche modo più sfumato. Però era comunque fondamentale, nel senso che anche alle Brigate di montagna le informazioni dovevano arrivare. Chi le forniva? Da dove arrivavano? Arrivavano delle città. E nelle città non c’era il partigiano dell’iconografia, l’eroe col fazzoletto al collo. Lo stesso De Vivo, che è stato arrestato dalla Banda Carità, collaborava attivamente con la Resistenza però formalmente era un professore delle superiori, non era entrato in clandestinità, proprio perché riteneva di essere più utile in questa veste.
Filippo. La storia di Palazzo Giusti mi è sempre parsa nota in questa città, ma voi la definite una storia messa in ombra. Mi spiegate come mai?
Giulia. A livello istituzionale, parlando dell’Università di Padova, quando si parla di memoria della Resistenza, di cosa tramandare alle future generazioni, è come se fosse stata fatta una scelta: la medaglia d’oro. O meglio: il discorso del rettore Concetto Marchesi, bellissimo, perfetto, e la medaglia d’oro. Nella nostra università più di cento studenti sono morti combattendo da partigiani, e per questo abbiamo ottenuto la medaglia: questa è l’immagine che deve restare.
Tutto quello che riguarda quest’altro aspetto della storia, che è più complesso perché coinvolge, ad esempio, una serie di persone che hanno fatto il doppio gioco, è stato messo in secondo piano. È anche più difficile da comunicare, e in fondo a nessuno faceva tanto piacere raccontare questa storia. Raccontare cioè che la Banda Carità è arrivata da Firenze, i suoi membri non conoscevano nessuno in città, non sapevano niente di Padova, e in due mesi hanno decapitato il movimento della Resistenza arrestando i suoi dirigenti più importanti. Come ci sono riusciti? Chiaramente qualcuno li ha aiutati. Loro erano molto organizzati, è vero, ma hanno avuto forti appoggi in città, questo è innegabile. Si apriva così tutta una serie di complessità che era meglio mettere da parte. Si è scelto di chiudere un occhio su questo aspetto della storia, che era più problematico, per concentrarsi sugli aspetti eroici.
Sara. È un po’ il rovescio della medaglia, l’oblio di una fetta. Ogni volta che scegli di raccontare un avvenimento scegli un punto di vista e un altro ne perdi. Solo che qui è stato perso un pezzo grosso, e salta all’occhio. A maggior ragione perché tra le persone coinvolte c’erano persone molto in vista nella città. Insomma, è un buco in mezzo a una tela. Solo che è un buco molto, molto grande.
Filippo. Quindi voi avete tematizzato la rimozione all’interno del vostro lavoro?
Sara. Sì: la rimozione è uno dei nuclei tematici, non solo in questi termini: essa agisce a vari livelli, non esclusivamente a livello cittadino. C’è la rimozione delle proprie responsabilità da parte degli aguzzini, ad esempio.
In uno degli ultimi episodi, raccontiamo di una lettera scritta da Franca Carità, la figlia maggiore di Mario Carità, che partecipò alle torture all’interno di Palazzo Giusti. Finita la guerra lei si trova in difficoltà, è orfana, le è rimasta solo la sorella più giovane, e sono entrambe sotto processo. E così lei, nell’agosto del ‘45, arriva a scrivere una lettera a Meneghetti, chiedendogli di fare “tutto quello che può” per aiutarle, appellandosi al suo buon cuore. Fino a 4, 5 mesi prima lo stava torturando, ma finita la guerra le sembra una strada quantomeno praticabile scrivergli per chiedergli aiuto. E non compie nessun tipo di assunzione di responsabilità, non chiede neanche scusa, si appella al “buon cuore” e basta. Anche questa è una forma di rimozione.
Giulia. Anche la figlia più piccola di Carità, Elisa, che invece non partecipò alle torture, ha rimosso molti ricordi di Palazzo Giusti. Quando Riccardo Caporale ha iniziato a compiere le sue ricerche, nei primi anni Duemila, lei era ancora viva e ha accettato di farsi intervistare da lui. L’intervista però è piena di buchi, ci sono delle rimozioni che sono anche comprensibili, ma che rimangono comunque impressionanti. Lei parla del padre come di un santino, dice che era un padre amorevole, presente. E per esempio cancella del tutto il fatto che, ad un certo punto, lui l’abbia fidanzata contro il suo volere con uno dei membri della banda.
Sara. Ci avvitiamo sempre intorno al tema della rimozione della memoria, della rimozione delle proprie responsabilità. Ci sono dei chiodi che ricorrono e intorno a cui si arrotolano un sacco di fili di questa storia. La rimozione poi a Padova sicuramente è stata messa in atto anche per motivi politici, perché poi c’è stato per un sacco di anni il governo democristiano. E la componente cattolica c’era, nella resistenza, però finita la guerra è stata sicuramente la componente che ha spinto di più per la pacificazione nazionale e la chiusura del conflitto.